CHIESE a MESAGNE

 

La Chiesa Matrice

La metà del Seicento rappresentò per Mesagne un periodo di grandi trasformazioni urbanistiche. L’arte barocca, tipica del periodo, trovò nella chiesa matrice una delle sue prime espressioni. Edificata tra 1649 e 1660, prese il posto di una preesistente chiesa bizantina, dedicata a San Nicola Vetere, di cui rimane traccia nella cripta posta sotto l’altare maggiore. Il nuovo edificio, dedicato a Tutti i Santi, venne realizzato su progetto del celebre architetto Francesco Capodieci. La facciata si articola su tre ordini, scanditi da nicchie, con le figure degli apostoli, e da lunghe lesene che ne accentuano il senso di verticalità. Il portale, parte dell’originale cinquecentesco, è sormontato da S. Eleuterio, primo protettore della città, Corebo e Antea. Sull’ordine superiore si collocano un bassorilievo raffigurante la Madonna del Carmine e lo stemma civico, mentre il timpano è coronato da figure angeliche. L’interno della chiesa, a croce latina con un’unica navata, fu interamente ricostruito nella seconda metà del Settecento. Splendidi altari sfilano lungo le pareti laterali, ognuno impreziosito da tele di inestimabile valore. Artefici delle numerose opere furono artisti di scuola napoletana e pittori e scultori locali. Tra le tele di maggior pregio l’Assunzione di Saverio Lillo da Ruffano, la Madonna del Carmine del napoletano Giuseppe Bonito e l’Adorazione dei pastori di Gian Pietro Zullo, Andrea Cunavi e Domenico Pinca. Un pregevole organo a canne troneggia sulla cantoria, opera dell’indiscusso maestro Tommaso Mauro, di Muro Leccese.

 

La Basilica – Santuario della Vergine SS. del Monte Carmelo

I carmelitani si stanziarono a Mesagne l’8 gennaio del 1520, chiamati dal sindaco Evangelista Malvindi e dai rappresentanti cittadini eletti tra i nobili ed il popolo ad occupare l’antica chiesa di sant’Angelo, il cui nucleo risale al IX secolo, quando donazioni e lasciti consentirono di costruire un edificio più grande per officiare il culto di san Michele Arcangelo, al quale era già dedicata una cripta paleocristiana situata, attualmente, al di sotto dell’unica navata rimasta della chiesa. Il sito sul quale sorge la Basilica – Santuario dedicato al culto della Vergine del Carmelo e di san Michele Arcangelo, geologicamente interessante per la presenza, al di sotto della superficie, di ben quattro “vore”, depressioni carsiche, profonde, in alcuni punti, alcune centinaia di metri, ha catalizzato, negli ultimi anni, l’attenzione degli studiosi per alcune significative testimonianze archeologiche. Nel 1975, infatti, a seguito di lavori di restauro della chiesa, sotto la pavimentazione furono trovati alcuni pezzi di fondamenta con resti di decorazione pittorica appartenenti, con molta probabilità, ad una villa di epoca romana. A circa tre – quattro metri dal punto di ritrovamento fu rinvenuta una struttura piramidale interrata, alta circa metri 4 e larga metri 3, attraversata da tre architravi. Essa doveva servire da granaio perché al di sopra vi era un recipiente a forma di vasca scavata nel tufo, in cui presumibilmente la farina veniva deposta dopo essere stata macinata. Si può dire, quasi con certezza, che questa abitazione dovette esistere e funzionare fino al IV secolo d. C., quando l’impero romano era in una irreversibile fase di disgregazione. Di tutte le famiglie di religiosi presenti a Mesagne, solo i carmelitani non abbatterono la loro antica chiesa sostituendola con una dalle linee barocche. Probabilmente questo fu dovuto alle ingenti spese che avevano dovuto sopportare per la ricostruzione del loro monastero, ma anche per non intaccare la familiarità che i cittadini mesagnesi avevano con quel luogo sacro, divenuto santuario mariano. All’esterno, pertanto, la chiesa conserva una facciata romanica austera, percorsa da scalanature culminanti ad archi ciechi trilobati. Notevole il ricco portale ad arco ogivale riccamente decorato con motivi fitomorfi, che presenta, al centro, una lunetta affrescata con l’immagine della Madonna. Una sequenza di lesene scandisce, invece, la facciata laterale, interrotta da due monofore cieche e da due porte laterali, una delle quali,completamente murata, costituiva l’ingresso dell’antica chiesa. L’interno, invece, conserva, dell’antico impianto romanico, solamente una colonna culminante con un capitello corinzio, attualmente facente parte di una delle paraste della navata di sinistra; tutto il resto, infatti, presenta un marcato rimaneggiamento avvenuto in epoca barocca, riguardante sia l’ampliamento della chiesa che i lavori di sistemazione delle cappelle laterali, compiuti tra il 1639 ed il 1644, con probabile realizzazione delle macchine d’altare, impreziosite da intarsi e da stucchi, e successivamente, da alcune tele composte da Diego Bianchi. Sobria l’area presbiteriale dove campeggia, al centro, l’immagine lignea della Vergine del Carmelo con Bambino, opera di Francesco Palvisino da Putignano.

 

La Chiesa di S. Anna

La chiesa deve la propria costruzione al voto mantenuto dalla principessa Vittoria Capano, in seguito alla guarigione miracolosa del Principe De Angelis.
I lavori ebbero inizio intorno al 1683 e vennero ultimati nel 1699, come riportato dall’epigrafe nel medaglione posto sulla facciata.
Il progetto dell’opera porta la firma dell’architetto Francesco Capodieci, già autore della chiesa matrice e di altri capolavori di arte barocca della città.
Le decorazioni e gli stucchi furono realizzati da Giuseppe Cino e Pietro Elmo, tra i protagonisti indiscussi del Barocco leccese.
La facciata risulta articolata su due ordini, con colonne a tutto tondo e lesene angolari. Il portale, in carparo locale, è impreziosito da motivi fitoformi e teste di cherubini.
Al di sopra, un timpano curvilineo accoglie un medaglione che forse ospitava lo stemma dei De Angelis o la dedica alla Santa.
L’apparato decorativo è caratterizzato da due registri con festoni di frutta e intrecci di foglie, oltre alle delicate cornici scolpite delle quattro nicchie e della finestra centrale.
Varcata la soglia, l’interno si presenta a navata unica con un altare maggiore, tre laterali e due splendidi pulpiti lignei seicenteschi.
Tra le opere più importanti all’interno, una copia del Cristo deposto dalla croce del Veronese, attribuita al mesagnese Andrea Cunavi, e alcune statue in cartapesta del XIX secolo.

 

La Chiesa domenicana della SS. Annunziata

La prima pietra della nuova chiesa della Santissima Annunziata fu posta il 16 ottobre 1701. I mastri appaltatori attesero ai lavori della nuova fabbrica fino al 1715: a questa data, infatti, risale l’ultimazione di quelle che erano le opere in muratura previste nel capitolato d’appalto, per cui la chiesa doveva essere coperta a tavolato, come stabilito nel progetto redatto dall’architetto Giuseppe Cino. Ma i padri domenicani optarono per una ben diversa soluzione e pensarono di coprire la nuova struttura a “lamia”, cioè con una volta in pietra. L’architetto Giuseppe Cino espresse parere sfavorevole; malgrado ciò, i domenicani il 9 settembre 1716 stipularono un nuovo capitolato d’appalto con il mastro architetto Angelo Guido e coni figli Francesco e Donato per il proseguimento dei lavori secondo le loro intenzioni. Il clan dei Guido offriva tutte le garanzie per portare a buon fine l’opera riguardante la chiesa dei frati domenicani, la quale fu completata intorno al 1720. Essa non resse, però, all’onda sismica che il 20 febbraio 1743 investì l’intero Salento. Per questo, qualche tempo dopo fu mandato a Mesagne, dalla Regia Udienza di Lecce, l’ingegner Pasquale Margoleo, per osservare i danni che il sisma aveva inferto all’edificio. Gli stessi frati, nel 1745, affidarono proprio al Margoleo il compito di intervenire sulle pericolanti strutture e di rialzarle. A lavori finiti i mesagnesi poterono osservare, l’interno e la volta in pietra, unica nel suo genere, progettata per coprire una chiesa ottagonale. I domenicani avevano impegnato somme ingenti per riparare i danni provocati ai loro immobili dal terremoto del 1743 e, malgrado le cospicue rendite, non furono nelle condizioni di portare a compimento il progetto della costruzione di un campanile. Comunque, nella sistemazione della nuova chiesa, i padri conservarono il cappellone di s. Tommaso d’Aquino, chiudendo con esso, alla men peggio, la nuova costruzione. L’altare maggiore fu costruito in pietra bianca dipinta, a pianta ricurva, sotto l’arco di trionfo, addossato al muro del Cappellone di s. Tommaso. A questo altare venne aggiunta la cappella beneficiale dell’Annunciazione, che però decadde poco dopo. Le tele antiche del Rosario, di s. Giacinto e s. Domenico, opere attribuite all’artista locale Giampietro Zullo, furono collocate sugli altari laterali; sul primo altare a sinistra, entrando dalla porta maggiore, invece, fu posto il Crocifisso in legno, ai cui lati vennero dipinte sull’intonaco della parete di fondo le immagini dell’Addolorata e di san Giovanni Apostolo. Da sottolineare, all’esterno della chiesa, un antico portale di chiaro gusto rinascimentale in tufo di carparo, oggi tamponato, che faceva parte della più ridotta ed antica chiesa dei Domenicani. Il portale è racchiuso fra due esili lesene, con capitelli corinzi appena abbozzati e teste in rilievo fra le volute, e con decorazione naturalistica a forma di candelabro rinascimentale lungo il fusto, entro sottili riquadri. La porta è incorniciata da decorazioni naturalistiche e da una protome umana rappresentante una versione particolarmente drammatica della “Veronica”. Opera, questa, come l’intero portale, dello scultore neretino Francesco Bellotto, come denotato da un’iscrizione posta lungo lo stipite destro del portale, completato nel 1555. Sull’architrave, modanato con fasce a risega, e con sovrapposte foglie d’acanto accartocciate, è posto il fregio, decorato con figure in bassorilievo, rappresentanti l’ingresso trionfale di un sovrano in città, secondo una tradizione ed una simbologia molto diffuse, e con fiori lobati ai lati. La cornice superiore è ornata con ovoli, scalanature e motivi a treccia. Superiormente ad essa, a coronamento del sistema, vi è una lunetta contenuta in un riquadro in aggetto, con decorazioni ad ovoli, scalanature, figure in bassorilievo raffiguranti il Bambino Gesù ed angeli adoranti.

 

La Chiesa di S. Maria in Bethlehem

La storiografia locale suole far risalire la costruzione della chiesa di santa Maria in Bethlehem ad un triste evento che colpì Mesagne nel 1526. Nel mese di luglio di quell’anno, infatti, si abbatté sulla città una terribile pestilenza, che aveva già mietuto vittime in tutto il Regno di Napoli. In Mesagne vi era, vicino alla “Porta Piccola”, un’antichissima cappella, logorata dal tempo e quasi priva del tetto. Sull’unico altare vi era un affresco raffigurante santa Maria in Bethlehem, alla quale i fedeli del luogo si rivolsero affinché li liberasse dal terribile morbo. Cessato il pericolo, verso il 1528 i mesagnesi, riconoscenti, restaurarono ed ingrandirono la vecchia cappella, incorniciando l’effige della Madonna. Agli inizi del secolo XVII i frati celestini, che dimoravano nel cenobio e nella piccola chiesa di san Bartolomeo, tramite il reverendo don Celso Amerigo Romano, abate generale dell’Ordine dei Celestini, chiesero a don Vincenzo Pagano di Napoli, che beneficiava della chiesa di santa Maria della Sanità, la gestione di detta chiesa con l’impegno di ampliarla, nonché la cessione di quei terreni che fiancheggiavano la via detta “Borgo delle Vergini”. Dopo la costruzione il monastero, grazie all’aumento delle rendite, venne dichiarato, il 19 maggio 1634, abbazia: nel frattempo, poiché la vecchia chiesa minacciava di crollare, don Gregorio di Lecce, abate dell’Ordine Celestino, la fece demolire, dando l’avvio ai lavori per la costruzione di una nuova e più bella fabbrica che dedicò a Santa Maria in Bethlehem. I lavori di costruzione iniziarono dal 1662 per essere poi ultimati nel 1738, come si legge ancora oggi sul vertice della facciata: “Deo Unico Mundi Salvatori in Bethlehem Nato Eiusque Matri Perpetuo Virgini Dicatum A. Dom. MCDCCXXXVIII”. L’impianto prospettico della facciata è strutturato in due ordini, sormontati dal fastigio centrale affiancato da angeli e pinnacoli. I due ordini, nettamente distinti dalla marcata trabeazione centrale, si differenziano non solo per la larghezza (quello inferiore è più largo di quello superiore), ma anche per gli aspetti decorativi. La facciata e i sei altari si possono inserire certamente nella scuola di Santa Croce e del barocco leccese, mentre gli artisti – artefici vanno annoverati fra i seguaci dello Zimbalo e del Penna. Nella facciata di s. Maria si ripetono, con dovizia, alcuni motivi della facciata di santa Croce di Lecce come il portale e le colonne interrotte ad un terzo da anelli di putti, che in s. Maria proseguono, invece, sulle lesene laterali; e poi ancora le statue di s. Celestino e s. Benedetto, poste nelle nicchie laterali del primo ordine, ricalcano, con impressionante rassomiglianza, quelle eseguite da Cesare Penna a Lecce. Il portale d’ingresso, impostato e realizzato come quello della chiesa Matrice è, forse, posteriore alla facciata. Il sistema è racchiuso da coppie di colonne e lesene scanalate, ed è sormontato da una nicchia riccamente decorata che si sovrappone, come nella chiesa Matrice, alla cornice della trabeazione. Nel secondo ordine si configura la stessa ripartizione di quello inferiore, ma il programma iconografico si modifica: al centro è sistemata, in asse col portale, una finestra riccamente decorata, affiancata da festoni verticali e culminante con due angeli ed un fastigio centrale che riporta un’epigrafe con la data di inizio e di ultimazione dei lavori. La facciata si conclude con un frontone mistilineo, mentre in asse con la finestra si erge il riquadro centrale in cui è scolpito un bassorilievo che rappresenta san Michele Arcangelo. A fianco a questa partitura centrale sono sistemati due magnifici angeli e ai loro lati due pinnacoli. L’interno della chiesa è caratterizzato da un ampio vano che presenta cinque partiture delimitate da sei lesene che, alte e slanciate, si raccordano con la trabeazione di ordine dorico, a cui si imposta la volta a botte. La chiesa presenta, ai lati, una serie di altari barocchi, sistemati all’interno delle mura perimetrali ed incorniciati dal classico sistema archivoltato, con due piedritti che sostengono un arco a tutto sesto. L’interno culmina con il presbiterio riccamente decorato.

 

Il Santuario di Materdomini

A Mesagne, nel Seicento, i poteri forti erano dati dagli ordini religiosi possidenti, dal clero secolare, dai feudatari e dal locale patriziato cittadino, ristretto a poche famiglie nobili. Infatti, se nel Cinquecento è soprattutto l’edilizia civile a dominare la scena, come testimoniano i diversi manufatti architettonici, presenti dentro il perimetro della città murata, nel Seicento prende il sopravvento l’edilizia sacra e si edificano nuove chiese improntate all’architettura barocca. La Collegiata, santa Maria in Bethlehem dei padri celestini, la santissima Annunziata dei domenicani, la chiesa di sant’Anna dei feudatari di casa de Angelis costituiscono il volto monumentale di Mesagne e determinano una diversa concezione dello spazio urbano. A completare il quadro delle chiese più rappresentative sul piano monumentale le sei – settecentesche chiese – oratorio, tra cui emerge, per peculiarità architettoniche, il santuario di Mater Domini. Essa è l’unica chiesa a pianta centrale edificata in città su progetto del mastro ingegnere Michele Profilo tra il 1605 ed il 1606. Per la raccolta dei fondi necessari all’erezione del nuovo tempio in onore della miracolosa immagine di Mater Domini si impegnarono, soprattutto, i nobili mesagnesi, tra cui il capitano Pietro Resta e Nicola Capodieci, affiancati da Pompeo Falcone, di estrazione popolare. Le elemosine per l’erigendo tempio durarono alcuni anni, dal 1598 al 1606, e soltanto quando si ebbe la certezza di avere denaro sufficiente per costruire una nuova chiesa si procedette all’abbattimento della vecchia cappella dentro cui si trovava affrescata l’immagine miracolosa della Vergine con Bambino. La nuova chiesa di Mater Domini è appartenuta, per secoli, alla mensa arcivescovile, per cui fu l’allora arcivescovo Francesco Ramirez a consentire che in essa, nel 1688, si insediasse la confraternita degli Schiavi di Maria, formata esclusivamente da contadini, i quali ebbero il merito di aver provveduto, con proprio denaro, alla realizzazione della volta e della cupola, innalzate tra il 1711 ed il 1715. Da alcuni documenti custoditi nell’Archivio di Stato di Brindisi risulta, pertanto, che probabilmente la chiesa di Mater Dominifosse stata ricostruita di sana pianta tra il 1711 ed il 1715 e che non si fosse trattato dei soli lavori riguardanti la realizzazione della cupola, i quali furono completati solo intorno al 1740. La chiesa, nel 1783, fu decorata con stucchi dal napoletano Michele Garofalo e altri maestri, ed ha conservato, fino ai nostri giorni, le antiche decorazioni ed il non trascurabile repertorio di opere figurative, tra cui l’Incredulità di san Tommaso dipinta dall’artista locale Giampietro Zullo, il quale ritoccò anche l’immagine della Vergine custodita sull’altare principale.

 

La Chiesa di Sant’Antonio da Padova

L’attuale chiesa di sant’Antonio da Padova è stata sede di una omonima confraternita dalla metà del XVII sino alla metà del XIX secolo. Questo edificio di culto fu edificato nel Seicento con le elemosine offerte dai mesagnesi e l’interessamento di alcuni ecclesiastici. Nel 1731 il Vinaccia de dava la seguente, succinta, descrizione: “Verso la volta di mezzo giorno distante dalla suddetta terra tre tiri di schioppo vi risiede la venerabile chiesa sotto il titolo di s. Antonio da Padova, consistente in una nave bel lunga e larga coverta da tetto a due penne, astrecata nel suolo, con altare in testa, ove si celebra in ogni festa e vi si tiene congregazione dagli artisti di detta terra”. Lo storico Antonio Profilo, tra le altre scarne notizie, riporta la seguente: “Nella seconda metà del secolo XVII essa fu ricostruita ed ampliata; e forse allora ebbe origine l’Arciconfraternita di s. Antonio di Padova, rimastavi sino al 1846, anno nel quale si trasferì nella chiesa dei padri celestini”. Documenti inediti attestano che l’attuale chiesa di sant’Antonio da Padova fu costruita a partire dal 1635 circa dilato a quella più antica; ad interessarsi dell’innalzamento del nuovo edificio fu, per primo, il canonico Francesco Venerio, in qualità di cappellano e procuratore della primitiva chiesa citata nelle visite pastorali del Cinquecento e nell’opera dello storico Cataldantonio Mannarino. I documenti non registrano i nomi delle maestranze e dell’ingegnere che progettò la chiesa di sant’Antonio da Padova e, quindi, è possibile solo ipotizzare il coinvolgimento dei Profilo, unica famiglia di architetti e progettisti presenti a Mesagne, nelle fasi di realizzazione del manufatto. La chiesa è a navata unica e si presenta, esternamente, a campo unico, delimitato da paraste con un frontone spezzato. Altri corpi di fabbrica furono aggiunti nel Settecento, probabilmente in seguito ai danni provocati dal terremoto del 20 febbraio 1743. Un atto del 9 aprile 1749 attesta che in quel periodo si stava costruendo la sacrestia per conto della confraternita: “Nella presenza nostra costituiti Bernardino di Dio rettore della Venerabile Confraternita di s. Antonio di Padua di Mesagne e Francesco Paolo Rizzo assistente dell’istessa da una parte, e Antonio Magno di Agata dall’altra parte. Le dette parti hanno asserito qualmente esso Antonio ha venduto a favore di detta venerabile confraternita carlini sedici per il capitale di ducati venti servendono li detti ducati per la fabrica della sacrestia di detta venerabile confraternita”. La confraternita di sant’Antonio da Padova era composta prevalentemente da artigiani, come viene documentato dalle sante visite pastorali ed ogni anno, il 13 giugno, organizzava per le vie dell’abitato, una processione con la statua del Santo. Essa fu dichiarata regia agli inizi del 1763, ed i membri del pio sodalizio vollero ricordare l’evento col dipinto, affisso in sacrestia, del giovanissimo sovrano Ferdinando IV di Borbone. Altro avvenimento importante per la storia della chiesa – oratorio di sant’Antonio da Padova fu l’istituzione di un “monte di maritaggio”, voluto dalla nobildonna Ilaria Falces. Era, questo, un evento che coinvolgeva la Mesagne della povera gente e contribuiva fortemente a far crescere la presenza di devoti all’interno del sacro edificio. Anche il dipinto raffigurante la benefattrice fu collocato all’interno dell’oratorio dei confratelli. La Falces, per testamento, stabilì, inoltre, di concedere ai confratelli una consistente somma per festeggiare degnamente il Santo padovano; per siffatti motivi il ruolo della chiesa divenne di non secondaria importanza per le vicende religiose di Mesagne nel XVIII secolo.

 

La Chiesa di San Pio di Pietralcina

Nel 1976 il comune concesse il suolo necessario per l’edificazione del complesso; inizialmente l’incarico di progettazione fu affidato all’arch. Decio de Mauro. Nel 1996 fu adottato definitivamente il progetto dell’ing. Luigi Giorgino e dell’arch. Franco Cutrì. Il 22 luglio del 1997 i lavori furono affidati all’impresa Edil- Mesagne s.r.l.
Si pensò di dotare la nuova chiesa, di ambienti finalizzati all’accoglienza e all’ospitalità, di centri sportivi e di biblioteca. Fu previsto anche l’alloggio per il parroco. Un piccolo edificio fu adibito a cappella, per assolvere temporaneamente le funzioni di culto più importanti per gli abitanti del quartiere Seta. La chiesa, inizialmente denominata di San Giuseppe e il 10 ottobre 2002 dedicata a San Pio da Pietrelcina, proclamato santo il 16 giugno 2002 in piazza San Pietro da papa Giovanni Paolo II, fu completata nell’anno giubilare del 2000, esattamente il 29 maggio; qui fu trasferita la sede della parrocchia di San Giuseppe Artigiano già nella chiesa con lo stesso titolo, ora trasformata in rettoria e compresa nell’ambito territoriale della Chiesa Madre.
La titolatura parrocchiale di San Giuseppe Artigiano fu convertita in quella di San Pio da Pietrelcina il 17 giugno 2010. Ne fu data comunicazione ufficiale ai fedeli, in quell’anno, dall’arcivescovo mons. Rocco Talucci nel giorno dell’anniversario della morte del santo cappuccino il 23 settembre. La chiesa, moderna e funzionale, presenta una facciata tripartita rivolta a est. A don Angelo Galeone si deve la committenza delle opere presenti nella cappella in cui pure sono le icone di Maria con Bambino e di Gesù.